Hans Christian Andersen

Argomento (che ho desiderato, indagato e scelto molto prima di finire i miei esami…) della mia prima tesi di laurea. La ricezione europea, mal filtrata da quella anglosassone, di questo autore misterioso e controverso, interpretato con troppa leggerezza al di fuori della sua Danimarca.
Nel 2009, per diletto, ho composto questo articolo per “La Frusta.net”/”LA FRUSTA LETTERARIA di Alfio Squillaci. Sulla pagina italiana di Wikipedia di Hans Christan Andersen, sono stati impiegati diffusissimi stralci di questo mio saggio.
1. INFORMAZIONI BIOGRAFICHE SULLA GIOVENTU’.
Hans Christian Andersen nacque a Odense, nel 1805.
I suoi genitori erano un calzolaio e una lavandaia, ma lo scrittore millantò origini nobili molto a lungo, anche nelle sue autobiografie; in conclusione, ebbe a dirne semplicemente che «era stata solo la cattiva sorte ad impedire alla [sua] famiglia di ascendere alle classi sociali più alte, alle quali essa invece apparteneva di diritto».
Andersen fu un ragazzo sveglio ed incredibilmente immaginoso: pare che fosse affascinatissimo addirittura dalle illustrazioni bibliche sulle pareti della sua classe, ai tempi della scuola elementare, e che ciò gli impedisse di concentrarsi a dovere; eppure fu uno studente brillante. Conobbe fin dall’infanzia la discriminazione, in parte per le sue origini ma, con più probabilità, per le sue stesse stravaganze e la sua sviscerata ricerca d’affetto e confidenza, vicina fin dalla tenera età alla sensibilità femminile.
Proprio a causa delle angherie subite nell’ambiente scolastico, fu trasferito dalla madre in un istituto ebraico (alla comunità ebrea sarebbe rimasto legato anche nell’attività letteraria: il suo romanzo del ‘37 Solo un Violinista – questa la traduzione del titolo inglese – si sarebbe ispirato precisamente all’ultimo pogrom in Danimarca).
Ebbe rapporti controversi sia col padre che con la madre, a loro volta in costante conflitto tra loro, e soprattutto sull’argomento religioso: il padre doveva essere un uomo pragmatico di credo aconfessionale (si deduce dalle biografie che fosse addirittura un po’ caustico verso la cultura cattolica); la madre praticava invece un culto cristiano imbastito di superstizioni e fanatismi. Il padre di Andersen fu anche soldato impegnato e persuaso dalle ragioni dello Stato. Sua moglie, appena più anziana di lui, si caratterizzò come una figura anche più incisiva tra le pareti domestiche. Anzitutto aveva già avuto una figlia illegittima che il fratellastro Hans Christian disconosce per sempre, definendola volgarmente “la figlia di mia madre” (e questa risulta esser diventata in età adulta una prostituta). Anche lei – la sorellastra – avrebbe fatto eco in buona parte della narrativa di Andersen, e in particolare in alcune creature simboliche delle sue novelle per l’infanzia. (Secondo la critica, soprattutto L’Usignolo e una sua fiaba meno nota nella quale due giocattoli vivono “come fratello e sorella”, in un ambiente che richiama la cittadina di Odense; il dato controverso è che questi personaggi siano legati tra loro “più che un fratello e una sorella”, quasi come una proiezione inesaudita di ciò che mancò all’infanzia di Andersen).
Si narra che un giorno, un’anziana mendicante predisse ad Andersen che sarebbe diventato «ancora superiore a quel che merita. Sarà come un uccello selvaggio, che vola altissimo, grandioso. E un giorno tutta Odense sarà illuminata in suo onore.»
Orfano di padre a soli undici anni, Hans Christian sviluppò nell’adolescenza una forte passione per il canto e per il teatro. A quattordici anni riuscì ad entrare al Kongelige Teater addirittura come soprano. E proprio a quell’età decise di muoversi verso Copenhagen, benché la madre avesse fatto tutto il possibile per trattenerlo accanto a sé: pare solesse rassicurarsi con la certezza che sarebbe tornato indietro «non appena avesse visto il mare.» «Il mare lo spaventerà e tornerà da me». Tema, questo, che ricorda una celebre e fondamentale battuta del film The Truman Show.
2. ANDERSEN E IL REGNO UNITO.

La biografia più autorevole su H.C. Andersen è a firma del linguista e letterato Elias Bredsdorff (1912 – 2002 ) il quale pone l’accento, nel libro Hans Christian Andersen. The Story of his life and work, sul rapporto tra Andersen e il mercato vittoriano. A detta di questo saggista, il comportamento dei traduttori e dei critici anglosassoni verso Andersen sarebbe stato pari «a quello che tutto il mondo ha tenuto verso Swift e Defoe: hanno spinto Andersen in una nursery e ce lo hanno chiuso dentro». Per sempre. Ignorando la peculiarità del suo pregio letterario che invece sarebbe sopravvissuto a tutte le contrarietà.
È un’analisi puntuale e illuminante.
In effetti, la carriera letteraria di Andersen ci risulta dipendere molto dal feedback anglo-americano.
In particolare nel contesto britannico, Andersen fu accolto e acclamato a gran
voce nel 1847, anno nel quale egli si recò personalmente per la prima volta in terra inglese e vi compì esperienze di svolta. Tra il 1845 e il 1847, erano stati pubblicati in inglese sia alcuni romanzi di successo che varie fiabe dello scrittore. Tutte le maggiori riviste letterarie britanniche avevano promosso Andersen. «Il tuo nome è oggi onoratissimo, in Inghilterra», gli aveva scritto la sua prima traduttrice Mary Howitt.
L’editor della “Literary Gazette”, William Jerdan, scrisse ad Andersen nel 1846 per invitarlo in Inghilterra, e Andersen avrebbe risposto con entusiasmo, felice di recarsi in un posto «la cui letteratura ha così incredibilmente arricchito la mia immaginazione e colmato il mio cuore». Si innamorò di Londra a prima vista, e la paragonò nel fascino solo a Roma. («Londra con le sue giornate frenetiche, Roma con le sue notti di silenzio»).
Recensito in maniera eccelsa, lo scrittore fu incoraggiato da Jerdan a incontrare vari autori inglesi, ma, alla primissima occasione, perse per un pelo la possibilità di conoscere Charles Dickens, che comunque gli lasciò una raccolta delle sue opere con dedica esclusiva. Sarebbe stato l’inizio di un’amicizia storica.
Richard Bentley, che era stato anche l’editore di Dickens, aveva lanciato Andersen nel mercato inglese. E molte delle sue opere presero ad uscire prima tradotte che non in patria danese. Ma il rapporto tra lo scrittore e la sua traduttrice Mary Howitt sarebbe finito male. Mary, poetessa maritata a un altro nome dei circoli letterari britannici (William Howitt), pretendeva l’assoluta esclusiva sulle traduzioni. Inoltre, pur avendo una conoscenza solo superficiale della lingua danese, si arrogava licenze di censura e interventi “estetici” sulle opere di Andersen, millantando anche responsabilità e abilità delle quali l’autore originale sarebbe stato orgoglioso. Nello stesso ambiente inglese, perciò, fu sconsigliato ad Andersen di perpetuare i rapporti con lei e con il suo entourage; il che gli arrecò dei danni sia economici che in termini di rapporto col pubblico. Mary Howitt gli riservò un’invettiva massacrante nei suoi successivi saggi sulla Danimarca letteraria.
(2.1) ANDERSEN E CHARLES DICKENS.
Nel frattempo Andersen avrebbe registrato nel diario intimo e nelle sue pubblicazioni le fratture dell’Inghilterra vittoriana. Pur avendo giovato delle visite ad ambienti molto privilegiati di Londra, fu colpito dalle condizioni in cui versavano i poveri e dalla loro condizione di assoluti reietti all’interno della società londinese.
Nella prima visita a Londra, l’incontro con Dickens avvenne in agosto, a Ramsgate, e alla presenza di tutta la famiglia dello scrittore inglese. Preceduto da un breve scambio epistolare, l’episodio fu felice per entrambi, e lasciò traccia indelebile nelle memorie di Andresen: «Era partito da Broadstairs per salutarmi, e indossava un abito verde sdrucito e un kilt scozzese colorato in modo allegro, di un inglese elegantissimo. È stato l’ultima persona a stringermi la mano in Inghilterra e ha promesso di scrivermi. Mentre la nave si allontanava dal porto, riuscivo ancora a vederlo: credevo se ne sarebbe andato via molto prima! Agitava il cappello e alla fine ha anche alzato una mano verso il cielo. Mi chiedo se volesse dirmi: ‘Ci rivedremo quassù’.» L’anno successivo, arrivava in inglese un nuovo romanzo di Andersen, Le due baronesse, che entusiasmò Dickens, il quale ne aveva ricevuto una copia con dedica e lo ringraziava con un messaggio affettuoso il 4 giugno: «Mia moglie e i ragazzi insistono perché te li saluti tanto, e siamo tutti ansiosi di sapere quando ci allieterai con un nuovo libro. Siamo gelosi di Stoccolma e siamo gelosi della Finlandia, e ci ripetiamo che tu dovresti stare a casa, a casa e in nessun altro posto! (Eccetto l’Inghilterra, naturalmente, in cui ti accoglieremmo con tutto il cuore). A casa con una penna in mano e un bel plico di fogli bianchi davanti a te». E, in un messaggio ancora precedente:«La purezza e lo splendore dei tuoi pensieri sono troppo grandi perché tu li nasconda dentro di te».
Per dieci anni, i due autori avrebbero intrattenuto una corrispondenza irregolare ma molto intensa.
Nei racconti di Natale di quello stesso 1847, Andersen volle inserire un pensiero speciale: «Sento un desiderio, una bramosia di radicare in Inghilterra la prima fioritura del mio giardino poetico quale augurio natalizio: ed è grazie a te, mio caro, nobile Dickens, che coi tuoi libri mi sei stato amico prima di conoscerti.»
Ma, dopo tutto questo tempo di rincorse e attestati di stima immota, Andersen s’intrattenne per oltre un mese a casa dell’amico Charles. Era il luglio del 1857.
L’esperienza si annunciava entusiasmante da ambo le parti, ma si rivelò poi deleteria. L’ipersensibilità di Andersen e la sua necessità di attenzione, come ospite e straniero, provocarono infatti non pochi disagi alla famiglia Dickens. E, soprattutto, non poche incomprensioni. Dickens aveva garantito che durante quell’estate sarebbe stato libero e a completa disposizione per il suo ospite, ma fu invece indaffaratissimo tra la stesura de La Piccola Dorrit e numerose altre attività; il temperamento di Andersen, d’altra parte, era effettivamente delicatissimo. E alcune recensioni ed articoli sprezzanti su di lui, che gli pervennero in quelle giornate, complicarono di più il suo stato d’animo. Perciò la sua mancanza di autonomia dispiacque molto ai figli di Dickens, e probabilmente spinse lo stesso Charles a ridimensionare la sua opinione verso l’ospite.
Alla fine del lungo soggiorno a Gad’s Hill, Andersen gli scriveva: «Dimentica, amico, il lato oscuro di me che la troppa vicinanza potrebbe averti illuminato. Vorrei tanto vivere nel bel ricordo di una persona che ho amato come un amico e un fratello.»
E Dickens, che pur era stato di una cortesia e di una pazienza esemplari, lo aveva introdotto nei circoli letterari e teatrali più privilegiati, era stato disposto ad andargli incontro nonostante gli spigoli linguistici di quell’esperienza, mutò il suo comportamento a seguito di quel lungo mese di luglio. Addirittura scrisse di Andersen: «Ci sta facendo passare pessimi momenti. Sono perfino arrivato alla convinzione che non parli come si deve neppure il danese. Almeno è ciò che sostiene la sua traduttrice, e sarebbe in grado di giurarlo di fronte a un giudice.»
Anche alcuni biografi di Dickens avrebbero indagato su questi infelici sviluppi del loro rapporto. Qualcuno ha sostenuto che fosse stato perché, più tardi, Andersen avrebbe raccomandato certe sue conoscenze, certi suoi letterati connazionali, alla porta dell’illustre Charles Dickens. Ma gli episodi più illuminanti – a detta del biografo Elias Bredsdorff – riguardano invece il modo in cui Andersen aveva parlato alla stampa danese della famiglia Dickens, ritraendola come una famiglia perfetta, in pieno stato di grazia;in particolare, in riferimento alla signora Dickens,dalla quale Charles si sarebbe separato successivamente, e poco più tardi. Non è improbabile che una simile divulgazione fosse parsa a Dickens come uno screditamento delle sue ragioni verso la moglie.
Dopo più di dieci anni dall’ultimo incontro, Andersen avrebbe scritto nel diario: «La sera del 9 giugno – ho letto – Charles Dickens è mancato. Non ci vedremo mai più su questa terra. Non avrò mai una spiegazione sul perché non abbia risposto alle mie lettere.» Era il 1870.
L’elemento di maggior rilievo, ad ogni modo, è come degli attestati di stima artistica da parte di uno fra i più autorevoli letterati del suo tempo, siano naufragati da un giorno all’altro. Che responsabilità possono aver avuto le istituzioni vittoriane, nella comprensione del “vero” Hans Christian Andersen?

3. ANDERSEN E LE SUE NOVELLE.
La denuncia più sofferta che il nostro contemporaneo (Elias Bredsdorff) , fa nel suo libro riguarda l’oggettiva difficoltà a cogliere il genio di Andersen in una lingua diversa dal danese.
Se, quindi, non è stato difficile risalire alle ambiguità sessuali del personaggio, ai suoi più grandi amori che lo rifiutarono per il suo censo, e se lettere e diari documentano gli aspetti più accessibili della storia di Andersen, nessuno si era mai assunto la responsabilità di un riscatto letterario dell’autore.
In una edizione inglese del 1935, a cura della Cambridge University Press e a firma di R.P.Keigwin, si spiegava: «Andersen screziò la sua narrativa con ogni possibile tocco ‘conversazionale’: neologismi, modi di dire che determinassero picchi d’attenzione nel lettore; frequenti incidentali o parentesi; slang tipici di Copenhagen; molte licenze. E soprattutto un uso liberissimo delle particelle del discorso: quei piccoli ammiccamenti tipici del linguaggio parlato, dei quali il danese come il greco è ricco, e non poco. Tanto mantenne il tono della conversazione nelle sue storie, Andersen, che si resta a bocca aperta quando invece vi si trova qualche tocco evidentemente letterario.»
Peculiarità linguistiche, quindi, che vengono affrontate da Elias Bredsdorff in una rassegna delle traduzioni inglesi del diciannovesimo secolo. Nomi e cognomi, case editrici che di lì in avanti avrebbero lasciato l’eredità di un altroAndersen, censurato per errori di comprensione (linguistica, quindi a un primissimo livello) e poi per le intenzioni “moralizzatrici” dei suoi traduttori vittoriani. Traduttori che vengono in qualche caso definiti “affetti da ambizione letteraria cronica” e che avrebbero fatto proprie le opere danesi con operazioni “deformanti”.
Eppure ci sono noti i modelli più poetici e interessanti della sua produzione.
Sono numerosi gli exempla di racconti sul modello della favola. Animali (e oggetti) che riproducono la natura umana, ma in chiave parodica, e che si fanno beffe della categoria umana stessa. Cicogne che parlano degli artifizi linguistici dell’uomo, definendo però il paradosso della incomunicabilità; giocattoli che rappresentano il microcosmo della borghesia e del proletariato, in cui un breve invaghimento fa da falso collante; fiori che confabulano tra loro, stupiti delle meraviglie del mondo ma a corto di strumenti per spiegarsele; paperelle che sarebbero in grado di perdonare a se stesse qualunque gesto, incluso l’assassinio; utensili di nazionalità diverse che interpretano proprio le socio-culture del diciannovesimo secolo. E naturalmente, l’emarginazione di creature come Il Brutto Anatroccolo, che cela nell’acerbità l’eterno e l’incompreso di una bellezza unica al mondo. Questi sono solo alcuni tra i modelli impiegati da Andersen e ridotti nelle sottigliezze e nei doppi sensi dai traduttori inglesi.
Per non parlare invece delle vere e proprie fiabe, permeate dalla morte, dal macabro, e nel contempo dal suo opposto: l’immortalità quale trasformazione in qualcosa di superiore, di congiungimento o ricongiungimento all’affetto perduto, o sottratto prima ancora di esser posseduto. Sono le celeberrime storie de La Sirenetta,L’intrepido soldatino di stagno, La piccola fiammiferaia. Il tema della mutilazione è presente in Andersen (a suo modo, La Sirenetta senza gambe e il Soldatino con una gamba sola. La bimba dalle scarpette rosse, cui saranno amputati i piedi); ma spesso la mutilazione è il punto di partenza per un passaggio ad un livello diverso della vita, terrena o ultraterrena: la Sirenetta vive nell’amore per l’essere umano – un essere umano “normalissimo”, benché sia un principe e sia molto bello, un autentico e banale cliché – la forza per rinunciare a tutto, un transfert che le farà abbracciare tre elementi: l’acqua, dalla quale parte, la terra, nella quale amerà in silenzio versando sangue dai piedi, l’aria (alla fine della storia diventerà proprio un’invisibile figlia dell’aria). Nell’amore e nel dolore, a causa della sua inadeguatezza, le sarà risparmiato solo il fuoco. Eppure nel fuoco muore un altro piccolo eroe di Andersen: il Soldatino, che nella morte trova l’adorata e bellissima ballerina di carta. Il cuore e la stella sotto la cenere sono la prova della loro trovata felicità.
Ai personaggi di Andersen, i quali cercano strenuamente di essere accettati, tocca aspirare al cielo perché si comprenda che erano esseri speciali, e non c’è dubbio che in queste storie Andersen proiettasse il suo concetto di sé.
4. GLI ULTIMI ANNI E L’ATTUALE FAMA DELL’AUTORE.
Il compenso più alto per la “esportazione” delle sue opere, Andersen lo ottenne dagli Stati Uniti, in vecchiaia. L’equivalente di 450 sterline da parte del signor Scudder, un autore newyorkese che portò una raccolta di Andersen negli Stati Uniti tra il 1870 e il 1871; rispetto a lui, quale autore di libri per l’infanzia, questi si dichiarava “umile discepolo del grande maestro”.
«È meraviglioso avere degli amici a questo mondo,» scriveva Andersen in una lettera a Edvard Collin nel 1873, nei suoi ultimi anni di vita. «Amici come quelli che ho io.» Ma, alla fine dello stesso anno: «Non vedo progresso, non vedo futuro. Se la vecchiaia è questo, allora è terribile.»
Nonostante gli enormi successi, Andersen invecchiò con pochi soldi in tasca. Tanto la Danimarca che gli Stati Uniti versarono dei tributi, per risollevare le sue tristissime condizioni economiche. Ma lui, pur commosso dalla solidarietà che gli arrivava dai lettori oltreoceano, ebbe a dirne: «Non posso accettare alcun dono che provenga da altri individui. Diversamente, anziché sentimenti di orgoglio e gratitudine, proverei umiliazione.»
Un anno prima della sua morte, posò per una scultura in suo onore, ma l’intero progetto fu contestato persino da soggetti molto vicini a lui: «Andersen ha tanti amici, è vero; ma anche molti nemici.» Dunque, riservargli una statua, perdippiù mentre era ancora in vita, fu considerata una decisione incauta. Ma la statua si fece, e con non poche polemiche intorno. Anzitutto, fino a che questa iniziativa della scultura non fosse andata a buon fine, gli venne sconsigliato caldamente di lanciare appelli che prevedessero lo stanziamento di proventi, incluso (e, nella fattispecie, soprattutto) con obiettivi di beneficienza. Andersen aveva infatti aderito in quel periodo all’iniziativa di intitolare col suo nome un orfanotrofio, ma la cosa non piacque ai signori Melchior e Bille, fautori dell’idea della statua. E ciò, naturalmente, turbò molto Andersen, che avrebbe preferito esporsi e destinare i fondi a quell’istituto. In seguito, lo scrittore ebbe una reazione a dir poco convulsa all’idea che in quella scultura lui dovesse leggere un libro a un ragazzino accanto a lui: gli parve di essere rappresentato in un atteggiamento di “nepotismo”, una cosa in stile “Socrate e Alcibiade”, come ebbe a commentarne lui, nei delicati equilibri della sua sensibilità e percezione di sé. Ottenne quindi di essere ritratto senza alcun bambino accanto.
Il suo ultimo compleanno – il settantesimo – fu ricorrenza di cui tutti i suoi appassionati, in tutto il mondo, si ricordarono. Molto malato, si sarebbe spento quattro mesi più tardi e c’è un aneddoto raccolto dalla signora Melchior, riguardo ai suoi ultimi giorni. Pare che Andersen le avesse chiesto di tagliargli un’arteria, dopo la sua morte, e di intagliare nella lapide la frase: «Non sono morto davvero». «Non capisco più nulla,» ripeteva continuamente: «Per caso, sto meglio?». Sarebbe mancato quarantotto ore più tardi, serenamente.

Il temperamento dell’autore è descritto in senso assolutamente bislacco. Un animo nobile e lieve, e nel contempo, uno spirito egocentrico e bisognoso di molte premure per tutta la sua vita. La sua vasta produzione è oggi riconosciuta tra le maggiori “istituzioni letterarie” per l’infanzia, ma l’appello del suo biografo Elias Bredsdorff è molto chiaro, e trascende la considerazione che si può avere di questo scrittore quale scrittore per un pubblico così giovane: Andersen va tradotto con competenza della lingua danese, direttamente dalla lingua danese, e restituendogli coloriture, licenze, umorismo, il suo apporto senza precedenti in Europa e nel mondo.
«A fronte del fatto che Andersen fu così mutilato dalla maggior parte dei suoi traduttori, è sorprendente che sia ad ogni modo sopravvissuto. Perché mai è diventato così popolare? La risposta potrebbe essere a mio avviso che, anche sotto le vesti che i suoi traduttori e adattatori vittoriani gli hanno imposto, non c’era nulla di simile né nella letteratura americana né in quella inglese. Andersen recava qualcosa di sconosciuto all’Europa. È vero che neppure il miglior traduttore renderebbe piena giustizia alla sua lingua e al suo stile. Ma dei buoni traduttori esistono, oggi; e sarebbe pietoso, per gli editori di opere infantili, continuare a pubblicare versioni delle sue storie che hanno creato un’idea assolutamente falsa del suo talento letterario.»

Simonetta Caminiti
Mio “antico” video-podcast dedicato ad Andersen:
Hans Christian Andersen. Storie, amori e malintesi (di Simonetta Caminiti) from Simonetta Caminiti on Vimeo.
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